lunedì 7 maggio 2012

Dialogo della Natura e di un Americano


Pubblico di seguito un vecchio racconto scritto e pubblicato sul blog 'La Lapide' nel lontano 2007, liberamente ispirato (quasi riscritto, in verità) dal celebre "Dialogo della Natura e di un Islandese", dalle Operette Morali del Leopardi, sul rapporto tra uomo e natura. Questo testo costituisce una valida dimostrazione del fatto che cinque anni fa scrivevo molto meglio di ora. ;)




Un americano, che aveva vagato per pianure e montagne e mari ed oceani, tanto che la memoria invano incespicava ancora nel tentativo di rimembrare quelle troppe terre vissute, passeggiando tranquillo per i verdi prati d’una foresta monda e pura, vide in lontananza un lago immerso tra le arboree fronde di quel mondo silvano. Dapprincipio fu colto da un senso di stupore misto a maraviglia, tanto era magnifico scorgere un luogo così surreale che sfavillava in quel bel bosco verde pastello, lungi dalla corruzione che in quell’epoca opprimeva le terre abitate dagli uomini.
 
Dunque il guardo lasciò il tempo all’agile corsa che in pochi soffi di vento portò l’americano alla sospirata destinazione. Ivi la vista poteva scrutare innumerevoli ruscelli scivolare dalle montagne donando le preziose acque al lago, ed un unico fiume defluire da quel magnifico specchio d’acqua: grande come le piazze delle capitali dell’est europeo, splendente come gli ori delle cattedrali dell’Europa centrale. Le luci abbacchiate del cielo terso si posavano attorno alle ombre degli alberi, riflessi a decine e centinaia sulle chiare acque dolci di una fresca serata di giugno. Paradisiaca pareva l’immagine dinanzi all’americano, il quale sorrise e si sedette per contemplare ancora un poco quel crespo spettacolo silenzioso.
 
D’un tratto parve che l’acqua iniziasse a muoversi e sbattersi nei pressi della riva, ad un respiro dall’americano, che si alzò di scatto. Vide scivolar fuori un corpo ignudo di donna, esile e scarna. Le dimensioni della minuta creatura rassicurarono l’impavido americano, che si limitò a contemplare i seni acerbi ed il volto impaurito di quell’essere bizzarro.
 
NATURA – Chi sei? Cosa ci fai qui?
 
AMERICANO – Sono un comune americano in cerca di nuovi stimoli, nuove terre da conoscere; vago alla ricerca di nuove scoperte e speranze da condividere.
 
NATURA – Come l’avvoltoio giunge subitamente addosso al cadavere morente, e senza niuna fatica lo fa suo cibo, tu hai dinanzi l’emblema di ciò che vai cercando.
 
AMERICANO – Come? Chi saresti, ragazza?
 
NATURA – Dinanzi a te solo Natura.
 

sabato 5 maggio 2012

In realtà la realtà è ben diversa

Vorrei chiedere una consulenza (filosofica).

Nietzsche nei Frammenti postumi 1885 - 1887 scrive in ottica schopenhaueriana:
"Contro il positivismo che si ferma ai fenomeni: 'ci sono solo fatti', direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare alcun fatto 'in sé': è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. [...] Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo, i nostri istinti e i pro e i contro".

Facendosi bello di questa teoria, ho sentito sostenere ad un tipo di contro ad un altro: "il muro che ho qui davanti non esiste. Il muro è un fatto ed 'i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni', come la mia che, dovendo passare al di là del muro, vedo in lui un ostacolo; o la tua che, dovendo solo passare qui a fianco, potresti vedere un'opera d'arte nel murales che c'è disegnato".

Tempo fa, Monti ricordava a Viola, a proposito di un suo post, di fare attenzione a distinguere tra la nozione di verità (epistemologica) e quella di realtà (ontologica). Ce l'aveva insegnato il buon Fano. Non sarà pertanto che quando si parla di "fatti" ed "interpretazioni" in questa polemica "Nietzsche vs positivismo" si sia più su un piano epistemologico che non ontologico? Se così fosse, infatti, non sarebbe sbagliato prendersela con questo povero muro dicendogli che non esiste ontologicamente solo perché io ne posso avere un'interpretazione epistemologicamente?!

So che l'enunciato di Nietzsche avrà poi anche valore ontologico - altrimenti non avrebbe avuto senso definirlo irrazionalista. In fondo epistemologia ed ontologia non sono in due pianeti differenti; ma in fondo è altrettanto vero che il loro coabitare assieme in un unico pianeta (cioè la definizione dei loro rapporti) è impresa difficoltosa - tanto quanto la domanda dell'amico di un mio amico: "se io, verità, ho un dito infilato nel di-dietro di te, realtà, chi è che più propriamente ha un dito nel di-dietro?" (ihih). Però io mi chiedevo solo se qui, almeno qui, almeno quando si parla del muro, non sarebbe giusto specificare che si sta parlando della nostra conoscenza del muro...

...grazie per la collaborazione, BUONA SEDUTA!

sabato 28 aprile 2012

Space Shuttle

Invenzione trionfale per il campo delle esplorazioni umane dell’universo nonché realizzazione di un immenso sogno tecnico-poetico aero-spaziale della seconda metà del Novecento, oggi lo Space Shuttle acquisirà un’utilità pari a quella di un orologio a cucù che impreziosisce una qualche collezione neanche troppo nobile. In altri termini, oggi se ne va in pensione la più celebre navetta spaziale statunitense – sì, dai… quella che ruba spazio al nostro immaginario ogni qualvolta si sentono le due parole “navetta spaziale” –; non volerà più e, temporaneamente, verrà messa a riposo in una qualche porta-aerei: [http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/inbreve/2012/04/27/ultimo-viaggio-Shuttle-sopra-NYC_6787196.html].
Siccome ai miei occhi è apparsa sempre come una tra le più emozionanti favole concrete mai ascoltate, volevo solo ricordarla; narrare e vivere ancora una volta questo meraviglioso capitolo della storia dell’uomo.


E ricordare il bellissimo Space Shuttle significa anche ricordare che si tratta di un’invenzione che nacque e fu resa possibile dalla terribile “corsa allo spazio”, parte sostanziale di una ‘forma agonistica’ ancora più terribile – la guerra fredda.

Ora vorrei spezzare una lancia (seppur non con troppo entusiasmo) in favore di Hegel. Quando vengono fatte le solite obiezioni all’assunto che «il reale è razionale»  ovverosia quelle tragiche domande che più o meno suonano come “ma allora Auschwitz è razionale?”, “ma allora l’attentato alle Torri Gemelle è razionale?” –, bisognerebbe essere più cauti nel vivisezionare in questo modo singoli eventi di un reale sterminato e multiforme, che forse non potrebbe neppure esserci o darsi al di fuori della sua sterminatezza e multiformità. La mela cade nella testa di Newton in maniera “razionale”; ma perché proprio nella testa di Newton e non di qualcun altro, per esempio, è qualcosa che appare “irrazionale” se non si guarda al quadro d’insieme, alla storia dalle molte sfaccettature che ha per epilogo il trovarsi di Newton proprio lì, proprio in quel momento. Razionale ed irrazionale forse non sono così separati quanto sembrerebbe a prima vista, quanto si concluderebbe sommariamente analizzando un solo segmento (peraltro creato con artificio) di una retta infinita. Insomma potrebbe essere (!) che razionale ed irrazionale siano scandalosamente connessi; che stiano in un’unità bella e terribile come quella in cui si trovano lo Space Shuttle e la guerra fredda, come quella che diceva quel tale a proposito di Borgia e del Rinascimento.
«Sai che cosa diceva quel tale? In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù.» (Orson Wells)

venerdì 20 aprile 2012

Accenti

Il sonno della ragione genera mostri (Francisco Goya)
Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo (Fernando Pessoa)


Sospesi in una giornata invernale, in quella comodità precaria che si può provare stando a sedere sullo schienale di una panchina, perché una nevicata si è presa tutto il posto che offre il sedile.



Sekkei: “Sai, Siedrick, dici che sia tanto carino questo mio parlare ricordando per interiezioni il nome proprio delle persone.
Sekkei (pensando tra sé e sé): “Io, Siedrick, lo trovo ripugnante, ridondante, squallidamente consolante che un uomo abbia bisogno di essere confortato rammentandogli di rammentare il proprio nome.”
Sedrick: “Sì, mi sorprendi ogni volta… perché così riesci a valorizzare le persone. Ricalcando i nomi propri delle persone nelle conversazioni, mi sembra tu riesca a chiamare la cosa con il proprio nome – fai risaltare il suo essere…”
Sekkei: “…ah! Interessante, davvero…”
Sedrick: “…molto, anche perché un modo di vedere le cose del genere non so neppure con quale posizione, nominalista o realista, possa intonarsi… Dovrei rifletterci su!”
Sekkei: “Bah, sono un ignorantone, Siedrick… Non potrei esserti d’aiuto alcuno; non conosco bene la disputa sugli universali purtroppo… provo ad interessarmi d’Oriente…”
Sedrick: “Oriente?! Be’, non me ne volere e prendi la mia critica come la critica che viene da un appassionato di filosofia medievale, che peraltro non conosce neppure approfonditamente le filosofie orientali… ma a me sembra che l’Oriente sia troppo spiritualistico.”
Sekkei: “Spiritualistico? Ah, sì ok… Be’ a te pare troppo spiritualistico, Siedrick ma…”
Sedrick: “…guarda… te lo dico ora… non vorrei sembrare… ma si dice Sedrick con la ‘è’…”
Sekkei: “…d’accordo, scusami Sèdrick. La mia memoria è un po’ “caduca” (con la ‘à’) – passami l’espressione…”
Sedrick: “…non vorrei sembrare di nuovo… ma si dice caduca con la ‘ù’…”
Sekkei (giusto pensando): “No, tranquillo… tu non sembri, Sèdrick; tu hai ragione… tu sei! Sì, nel tuo volere ricordare alle cose che hanno uno ed un sol nome, tu, Sèdrick, hai non solo una ragione ma tutte le ragioni del mondo – o quantomeno di un mondo che non vuole sembrare di essere perché vuole essere... ahaṃkāra...
Sekkei (ad alta voce, con meraviglia): “…oh, guarda laggiù! C’è la neve che ricopre e possiede l’intero parco. Non sono l’unico, non siamo gli unici – se anche tu vedi, Sèdrick – a violare l’intimità di questo splendido e gratuito far l’amore della natura; ci sono una mamma ed un bambino che reclamano il diritto a godere pure loro del loro parco che, nell’offrire gioia, mai a nessuno si rivela essere troppo parco. Sono lontani, figure distanti e forse troppo difficili da mettere a fuoco. Lo so. Ma almeno la mamma, con quella sua esuberante statura, la puoi ben scorgere, Sèdrick; sembra si sia appena infilata un bel paio di guanti per difendere le mani dal freddo, per poi sollevare da terra un po’ di neve, improvvisando un qualche gioco per il bambino. Se non l’intravedi, tranquillo; sentirai almeno le parole che bisbiglia anche se non si sa se rivolte alla neve, se rivolte al bambino o, com’è probabile, addirittura a sé stessa: - «Guarda, guarda… è la neve che cade». Ed ora fa’ attenzione ed osserva, anche se so che non lo farai, Sèdrick, perché hai già visto quel che volevi vedere, perché il bambino laggiù si presenta dalla statura troppo modesta, dalla voce troppo fioca; un bambino evanescente che risponde al bisbigliare della mamma in maniera altrettanto evanescente – un sorriso ed un nudo ‘eee’ indefinito, indefinibile. Neanche si fosse visto e letto tutto Beckett per capire quanto delle volte sia più realistico uno spiritualistico ‘eee’ che non un razionalissimo ‘è’.”
Sedrick: “Be’, vedo chiaramente la mamma, il bambino un po’ meno, il tipico spiritualismo che volevo smascherare un po’ di più. E mi sembra stupido… questo tuo ‘eee’ismo ad effetto tanto quanto senza sostanza e fuori luogo. Si stava discutendo di cose serie – nominalisti, realisti, spiritualisti; e tu te ne esci fuori con tutte queste cose allotrie al contesto – la natura che amoreggia, la neve, l’‘eee’izzare il mondo. Ma che c’entra?! La tua memoria dev’essere proprio annebbiata da questo tuo Oriente, se non riesce più a ricordare neppure quel commento di Hegel al cattivo argomentare di Diogene che, per smentire quel tizio convinto che non esistesse il movimento, si alzò e si mise a camminare. Non è questo filosofare: le risposte vanno date sullo stesso piano delle domande… ed ancora: se qualcuno combatte con la spada, sarebbe insensato e scorretto affrontarlo col fucile! Ecco perché andavo dicendo che queste filosofie orientali mi sembrano condite con troppo spiritualismo: eludono le questioni, non risolvono ma spostano i problemi su un altro piano. Insensate e scorrette! Buona parte della scienza s’impegna alacremente per trovare la via di mezzo nel sentiero della conoscenza, per non cadere nella via del dogmatismo da un lato e nella via dello scetticismo dall’altro; lo spiritualismo arriva, travolge e trasferisce tutto su un’altra pista – comoda via d’uscita, inventata di sana pianta, per sfuggire al lavoro duro. Non è tanto carino da parte sua, questo confondere le carte in tavola, non chiamando le cose col nome che hanno…”
Sekkei: “…caspita, scacco! Quasi m’arrendo davanti questa tua saggezza, super-filosofo.”
Sèdrick: “…non vorrei di nuovo sembrare, mettere sempre i puntini sulle ‘i’… ma forse non hai ben compreso: non sono affatto super-filosofo… sono Sedrick con la ‘è’…”
Sekkei: “…tu lo dici, Sèdrick, hai ragione in tutto… anzi, hai la ragione – è più preciso e referenziale, compendia in sé tutti i puntini sulle ‘i’…”


sabato 14 aprile 2012

cari raggassi, ho proprio idea di lasciar scrivere voi, io mi limiterò a mettere qualche fotografia che mi capiterà di scattare... non vi offendete, ma forse la scrittura non fa per me!!

venerdì 13 aprile 2012

Se Pasolini fa la domanda a me, non è tanto corretto sia Wittgenstein a rispondergli



"What can be shown cannot be said"
Tractatus logico-philosophicus, L. Wittgenstein, 4.1212

Non pensiate che, parlando di un film in questa sede, abbia voluto rendere un po' più chic il mio vespasiano privato, regalandomi la possibilità di vedermi la tv lì ma...

...visto Teorema di Pasolini!
A bocca aperta! Semplicemente, infantilmente e terribilmente a bocca aperta - questo lo status in cui mi ha lasciato il film per le troppe domande (altroché i chiari teoremi in senso moderno).
L'opera è come se fosse scandita in due parti (proprio come il romanzo omonimo del resto).
In un primo momento, un misterioso ospite inatteso (ma perché forse da sempre atteso) fa la comparsa in una casa signorile nella periferia residenziale milanese presso una famiglia borghese. Qui attira le attenzioni in maniera particolare di ciascun componente dell'abitazione - e Pasolini, magistralmente, ci mostra la natura di queste attenzioni che gravitano sull'ospite in maniera puramente indicativa. Ci "costringe" (direi) ad OSSERVARE - osservare e basta.
In un secondo momento, il misterioso ospite atteso (ma perché forse da sempre inatteso) toglie il disturbo e da quel momento ciascuno all'interno della famiglia borghese non sarà più (o almeno non sarà più com'era prima). Questo l'atto nel quale, rispetto a quanto si è osservato, si "mostrano" (direi) i COROLLARI - corollari e basta.

Alla fine di questi due momenti rimane la domanda: ma chi era il misterioso ospite (in)atteso - che a tratti ricorda l'Alì dagli occhi azzurri che ci leggeva Kammerer da Profezia?! E che diamine è successo?! Come è successo?!

All'inizio di questi due momenti (che poi sarebbe la scena del video sopra) si staglia parimenti un'altra domanda. L'incipit del film ci presenta infatti un giornalista che intervista gli operai ai quali il padre della famiglia borghese, con un flash-forward, lascerà la proprietà della sua industria. Quest'apertura dev'essere senz'ombra di dubbio emblematica - ma anche qui non ci si può che limitare ad osservare, abdurre corollari e crogiolarsi sopra un'ulteriore domanda:

[...] se insomma tutta la borghesia arriva ad identificare tutta l'umanità coi borghesi, non ha più davanti a sé una lotta di classe da vincere. Non con l'esercito, non con la nazione, non con la Chiesa confessionale... [...] Ha davanti a sé nuove domande, deve rispondere a delle nuove domande in una situazione diversa della nuova borghesia. Lei [dissertatore da tazza, n.d.] mi può rispondere a queste domande?!

Quando m'imbatto in film dal significato complicato spesso arranco consolandomi con il buon Wittgenstein del Tractatus. Eppure con Pasolini, elaboratore non tanto di film "metafisici" quanto stimolatore di risposte ed atti pratici, non posso legittimare la mia ottusità mentale tanto facilmente. Perciò qualcuno che ha visto il film (o che lo vedrà) ha chiavi di lettura o quantomeno la risposta ad una di tutta questa caterva di domande?!

Buone sedute!

mercoledì 11 aprile 2012

Mythos e Lògos... e Follia!?

C’è un concetto che porta su di sé la colpa di stare tra le prime pagine dei manuali di filosofia, antecedente all’alba di qualsivoglia Talete. Ora non si sa chi l’abbia deciso ma purtroppo l’espiazione di una simile colpa consiste in una trattazione del concetto rapida e sommaria; così si guadagna spazio per iniziare l’approfondimento e lo studio di quanto accadde quando il sole era già bello alto in cielo, quando sorse la “scuola” di Mileto.

Il concetto che sconta tale pena è l’incredibilmente (per quanto poco preso in considerazione almeno nel mio vecchio liceo) celebre passaggio dal
mythos al lògos.
Per come mi fu presentato, ricordo:

(A) una “toccata e fuga” sulla natura del mythos: “i miti tendevano a spiegare o a illustrare i più diversi fenomeni della realtà […] riconducendoli in genere a forze personificate: le divinità, appunto. In ciò essi rivelano la particolare forma mentale che li caratterizza, che si indica col nome di animismo. […] Va ad essi riconosciuta una funzione molto positiva: quella di aver stimolato l’uomo a non fermarsi ai semplici fatti nella loro molteplicità disorganica, ma a considerarli connessi l’uno all’altro e a cercarne i principi” (Immagini dell’uomo, L. Geymonat, Garzanti, 1994, pp. 9-10);

(B) qualche parolina in più spesa a mo’ di stesura del tappetino rosso per l’arrivo del lògos: lo “sviluppo delle tecniche (agricole, artigianali, costruttive) e la relativa separazione dell’ambiente naturale che comporta la vita in un ambiente cittadino [la diffusione delle poleis è ormai a buon punto nel VII secolo a.C., n.d.] dovevano favorire d'altronde un atteggiamento di ‘oggettivazione’ della natura, concepita non più come ‘potenza’ oscura e minacciosa di qualche divinità […]. Di qui lo stimolo a cercare rapporti oggettivi tra le cose, a indagare i principi naturali (e non divini) da cui i fenomeni derivano e le leggi che li regolano: in altre parole, il passaggio da una spiegazione animistica a una spiegazione razionale della realtà” (ibidem, pp. 15-6).

Benissimo. Parafrasando, al di là delle particolari forme che assumono e della maggior rilevanza che assunse poi via via il modo razionale di conoscere, mythos e lògos in sostanza sono entrambi tentativi di “spiegare i più diversi fenomeni della realtà”. Favoloso – e qui finisce tutta la favolosità ché ora ci attendono duemila e rotti anni di storia di questi tentativi.
Fermo, però! Aspetta un minutino – dai tempo a qualche sinapsi di connettersi e vedrai che qualche spunto di riflessione germoglia pure qui. Ad esempio: ma prima del mythos e prima del lògos le più disparate civiltà tentavano di spiegarsi “i più diversi fenomeni della realtà” o no?! Ma senza animismo e razionalismo, che diamine di forma mentale si può avere?! E si può vivere senza forma mentale?!

Fossi solo io a pormi certe domande mi sentirei un folle, un pazzo delirante. Eppure la cosa non so fino a che punto mi dispiacerebbe vista la concezione della follia e del delirio di certi autori, proprio in correlazione a quel prius oltre mythos e lògos.

Mi limito a poche citazioni (promesso! :P).
La prima è relativa ad un passo di un libro recentemente rispolverato; la voce narrante sta riportando alcuni pensieri di un certo Fedro, personaggio impazzito ricercando quello che definisce il “fantasma della razionalità”:

La disputa sul mythos e il logos sottolinea che ogni bambino che nasce è ignorante quanto un cavernicolo. Ciò che impedisce al mondo di ritornare a ogni generazione alla condizione neanderthaliana è la continuità del mythos, trasformato in logos ma ancora mythos, l'enorme corpo di conoscenza comune che unisce le nostre menti come le cellule nel corpo umano.
Un solo tipo di persona, disse Fedro, ha l'alternativa di accettare il mythos in cui vive o di rifiutarlo. E la definizione di questa persona, una volta che l'abbia rifiutato, è «pazzo».
Dio mio, mi è venuto in mente solo adesso. Non l'avevo mai saputo.
Il rapporto tra mythos e follia. Questo è un frammento chiave. Dubito che una cosa del genere l'abbia mai detta qualcun altro. La pazzia è la terra incognita che circonda il mythos. E lui lo sapeva! Sapeva che la Qualità di cui parlava stava al di fuori del mythos.
Ecco, ora ricordo! Perché la Qualità è la generatrice del mythos. È questo che Fedro intendeva quando diceva: «La Qualità è lo stimolo continuo con cui il nostro ambiente ci spinge a creare il mondo in cui viviamo. Tutto il mondo, fino all'ultima molecola». Fedro sapeva che, per capire la Qualità, avrebbe dovuto abbandonare il mythos. Per questo aveva sentito quel cedimento: sapeva che stava succedendo qualcosa. […]
Il mythos. È il mythos che è pazzo[il vero pazzo]. Ecco che cosa credeva lui. Il mythos secondo il quale le forme di questo mondo sono reali mentre la Qualità è irreale. E Fedro credeva di aver trovato in Aristotele e negli antichi greci i rozzi personaggi che avevano dato al mythos una forma tale da farci accettare come realtà questa pazzia.


Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, R. Pirsig, [
http://www.scribd.com/doc/35727234/Robert-M-Pirsig-Lo-Zen-e-l-Arte-Della-Manutenzione-Della-Motocicletta], pp. 186-8 (grassetto e sottolineato miei).

La seconda (ed ultima) è tratta invece da un’operetta che mi è stata recentemente e caldamente consigliata da un amico (ed io passo la voce perché ne vale davvero la pena, dissertatori da tazza!):

L’immagine moderna della possessione dipende ancora in gran parte, seppure non lo si ammetta, dall’occultismo ottocentesco. […] Quando i moderni e i Greci parlano della possessione, si riferiscono a realtà del tutto diverse. Ma non perché i Greci misconoscessero le forme patologiche della possessione […]. Sono i moderni ad avere smarrito il senso di ciò che per la conoscenza la possessione mette in gioco. […] Per i Greci la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi che la nominano. […] Possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo […].
[Un tempo] la mente era un luogo aperto, soggetto a invasioni, incursioni subite o provocate. Incursio, ricordiamo, è termine tecnico della possessione. Ciascuna di quelle invasioni era il segnale di una metamorfosi. E ogni metamorfosi era un’acquisizione di conoscenza. Certo, non già di una conoscenza che rimane disponibile come un algoritmo. Ma una conoscenza che è un pathos, come Aristotele definì l’esperienza misterica […].
Se all’origine della possessione incontriamo una Ninfa – Iynx – [Pindaro, Pitiche, n.d.], se le Ninfe presiedono alla possessione nella sua massima generalità, così è perché esse stesse sono l’elemento della possessione, sono quelle acque perennemente increspate e mutevoli dove improvvisamente un simulacro si staglia sovrano e soggioga la mente. E questo ci riconduce al lessico greco: nymphe significa sia ‘fanciulla pronta alle nozze’ sia ‘sorgente’ […].
Ninfa è dunque la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento […]. Forse ora potremo tentare di cogliere la peculiarità della ninfolessia, ciò che la distingue da ogni altro tipo di possessione. Soltanto un testo accenna a come si diventa nymphòleptos. Lo troviamo in Festo: […];«Per antica tradizione si dice che chiunque veda un’apparizione emergere da una sorgente, cioè l’immagine di una Ninfa, delira […]». Il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dunque dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza. […] Ma con le Ninfe occorre cautela […].

La follia che viene dalle Ninfe, R. Calasso, Adelphi, Milano, 2010, pp. 25-33 (grassetto e sottolineato miei)

A questo punto, venendo alla TERZA CITAZIONE… no, dai, scherzo! Dicevo...
...a questo punto ci si aspetterebbe una bella conclusione. Del tipo: e da quanto si è visto segue che prima del mythos e del lògos regnasse sovrana una forma di conoscenza più vivida del reale, in quanto si abbandonava completamente ad esso e lasciava che il soggetto ne fosse agito. Senza pensiero, né mitico né razionale, l’uomo si trovava davanti al e tutt’intorno il nudo reale – ne era posseduto! Ma senza pensiero si può pensare un uomo?! Be’, forse sì, se parliamo del folle, dell’uomo che delira. Eppure preferirei tenermi ben lontano da una simile conclusione, che nasconderebbe un’infinita presunzione. La mia intenzione era solo quella di sottolineare e di segnalare che, così come emerge almeno dalle due citazioni riportate, quella della follia (o della ninfolessia) come prius rispetto al mythos e al lògos mi sembra molto affascinante e pure fondata come ipotesi (e non certo come conclusione) di lavoro. Pertanto, dissertatori da tazza, al via le possibili critiche, gli eventuali accorgimenti, le ben accette battute (buone o cattive) e le improbabili richieste della terza citazione (:P).

Scusandomi ancora una volta per le troppe parole e la poca sostanza e la poca ironia e la poca varietà nei temi (uffa, mi viene da parlare sempre di filosofia o di Grecia qui… santo protettore dei Wc, fammi il dono una buona volta di mandarmi a cag*** in un Vespasiano non filosofico!),

BUONA SEDUTA =)

mercoledì 14 marzo 2012

Sulla duplice soluzione del problema di uovo e gallina


Credo che sia ermeneuticamente impossibile, per un vero filosofo giunto ad un punto cruciale della propria maturazione intellettuale, eludere il problema classico dell'uovo e della gallina. Per un caso fortuito mi sono recentemente ritrovato ad affrontare di nuovo la questione sulle pagine di un forum a me caro, e da quest'ultimo serio sforzo dialettico ho raggiunto la consapevolezza di poter alfine postare il risultato di anni ed anni di studi e ricerche sul problema fondamentale della storia della filosofia.
La mia risposta, in un'epoca di relativismo irrisolto come l'attuale, da adito ad almeno due possibili interpretazioni antitetiche, le quali, se non si vuole essere superbi come Hegel, difficilmente giungeranno ad una sintesi unitaria che non sia un pensiero coercitivo di potenza.
Il problema classico riguarda, neanche a dirlo, le cause prime, pertanto non può essere in alcun modo rigettato in quanto problema essenzialmente metafisico, idealistico. Vogliamo dunque distinguere almeno due casi.
La prima soluzione è di tipo creazionista; fideistica, strettamente legata alla creazione divina.
La Bibbia (Genesi 1:20) in proposito è molto chiara:
Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo».
La risposta non lascia ombra di dubbio. Prima la gallina, creata da Dio, e successivamente quella gallina deve aver deposto delle uova per tutte le galline successive. Dio ha creato la eva-gallina già bell'e pronta, e questa ha deposto le sue uova.
La seconda soluzione è invece quella proposta da Darwin e dalla sua discendenza intellettuale; se infatti si vuol essere evoluzionisti, quindi anche di mentalità scientifica e positivista, di certo c'era un animale pre-gallina che gallina non era, che, un certo giorno, deve aver deposto delle uova un po' particolari, con delle mutazioni genetiche al suo interno. Data una definizione esatta di 'gallina' (in senso genetico), deve esserci stata una non-gallina (la nostra pre-gallina) che ha deposto l'uovo della prima gallina, della eva-gallina. Quella gallina è ovviamente uscita dal suo uovo, quindi per l'evoluzionista è venuto prima l'uovo (di una non-gallina) che però era l'uovo della eva-gallina.
In conclusione, per il creazionista viene prima la gallina, per l'evoluzionista prima l'uovo.
Questa soluzione, lungi dal voler essere una risposta definitiva ad un problema apparentemente insolubile, vuole soltanto essere un mio piccolo contributo ad un dibattito che sopravviverà vivo e vitale per tutta la storia del pensiero.

martedì 21 febbraio 2012

Sulla luna

A.S. (ante-scriptum) o, se si preferisce, P.S. (prae-scriptum – in tutti i sensi –): prima di leggere tutto, riflettere bene (molto bene) sul P.S. in fondo al post.

(S)prologo
Non penso esista in questo mondo qualcosa di non istruttivo, qualcosa che non apporti la sua piccola ma abbagliante scintilla. Sono invece fermamente convinto che tutti noi non siamo in grado di riconoscere questo fatto, perché con la nostra strepitosa capacità di rimanere "eyes wide shut" e con la nostra 'pelle' di una delicatezza tale che tutti i "full metal jacket" di questa terra non basterebbero a preservarne la delicatezza, preferiamo ristorare e bivaccare in zone umbratili. Zone umbratili nelle quali in fondo, diciamolo dai, il calore ci allieta comunque, dalle quali la luce si vede in ogni caso senza il rischio di abbrustolirsi e tantomeno di sudare.
Per tutti i fulmini di Zeus, neanche ci fossimo serviti tanto ingordamente e ciecamente dal boccale di Dioniso sino al punto da essere sì confusi da berci il boccale, che rimane indigesto, anziché scolarci Dioniso stesso, la cui assimilazione repentina sortirebbe a tutt’altro effetto rispetto ad una difficile digestione! Come ci si può stordire tanto malamente e a tal punto da illudersi di poter godere di una scintilla senza lasciarsi trafiggere, senza abbandonarsi ad essa con tutto il conseguente sudore e le inevitabili bruciature che questo comporta?!
Rannicchiarsi nella propria zona umbratile è chiudersi al mondo, è qualcosa di meschino - e se ciò non basta, che le urlino i letterati quelle parole finali con cui Goethe andava ad occhi spalancati ed impunemente nudo verso quell’attimo finale, buio e spinoso, dell’esistenza: "Mehr Licht! Mehr Licht!" ("Più luce! Più luce!").

Mi rendo conto di essere troppo sul vago – non so se (anzi, so che non) sono in grado di chiarirmi ma provo a tirare su le tapparelle, a far entrare luce, a tentare quantomeno di schiarirmi. Un esempio ‘terra-terra’ (e ‘cartigienica-cartigienica’, perché ne servirà tanta mo’ che il post s’allunga e così pure la seduta…).

Parte 1 – La conferenza
Conferenza intitolata Miti e credenze popolari sulla luna; il relatore è un fisico, simpatico, estremamente competente e molto alla mano. In due ore circa di brillante esposizione dedica un’ora e mezza ad articoli scientifici (per lo più 'teTeschi', 'sviTzeri' e chi è più puntiglioso ed efficiente si aggiunga) volti a mostrare che l’UNICO effetto PRATICAMENTE significativo che la luna esercita sulla Terra TUTTA è la FORZA di MAREA. Per inciso, si tratta – riassume il fisico – di un’attrazione gravitazionale che un oggetto di una certa massa (come la luna) esercita su un altro oggetto (come la Terra) e che varia in maniera particolarmente SENSIBILE a seconda della distanza alla quale si trova il punto che subisce la forza (una forza, quindi, che risulta molto diversa tra i punti nella parte della Terra più vicina e quelli nella parte della Terra più lontana dalla luna in un dato momento).
Non mi dilungo perché poi subentra anche la forza centrifuga di rotazione della Terra su se stessa che, coniugata con l’altra, fa sì che il mare (ma anche la terra se fosse fluida!) si comporti come un’altalena, causando le maree.

Parte 2 – Il pubblico: miti e credenze in forma di zone umbratili
Forte della premessa rigorosa, esposta e ben piantata con la fatica di un’ora e mezza di spiegazioni, l’ultima mezzoretta, invece, il buon fisico mostra una serie di slides nelle quali, per farla breve, si ripete il ritornello: “l’influenza della luna sulle sementi? Cazzate!”, “l’influenza della luna sulla vita vegetale (per es. sui funghi)? Cazzate!”, “l’influenza della luna sulla vita animale (per es. sulla nascita dei bambini)? Cazzate!” e, in definitiva, “l’influenza della luna sulle cazzate? La risposta segue ad abundantiam dalle altre risposte”.
E non finisce qui: questa risposta che dovrebbe seguire dalle altre risposte (cioè che l’influenza della luna sia altissima per quanto riguarda l’armonioso fiorire di cazzate) può essere pure spiegata! Un tempo, infatti, era in uso il calendario lunare, quello coi mesi di 28 giorni, che a lungo andare creava dei problemi, non rispecchiando il tempo reale di rivoluzione della Terra attorno al Sole. Così le stagioni finivano per non coincidere più coi mesi e quei poveri contadini, per le loro coltivazioni – le quali si facevano beffe dell’astrattezza del calendario, vincolate com’erano alla concretezza del periodo caldo e di quello freddo, di quello umido e di quello asciutto –, erano costretti a orientarsi nel tempo facendo affidamento ad altro – alle fasi lunari. Col passare degli anni (ed ecco il punto ‘figo’), la luna potrebbe essere passata – sostiene il fisico – da semplice punto di riferimento calendariale per le semine, la crescita dei funghi, ecc… a vera e propria causa della fertilità delle semine, della nascita dei funghi, ecc… secondo un’operazione concettuale indebita. Pertanto ecco, per il fisico, la cazzata madre di tutte le altre cazzate – un plauso all’idea suggestiva di questo ‘fisicaccio’ erculeo!
Così si chiude la conferenza – così si apre il dilagare della protesta da parte di tutti quelli che erano venuti alla serata, sperando di andarsene con la certezza (vale a dire con la loro porzione bella e pronta di zona umbratile) circa il giorno preciso di luna crescente in cui piantare le proprie patate, circa la notte esatta di luna piena nella quale andare a pesca coi pesci che, con più luce, si muovono per cercare cibo o per riprodursi. Ce n’è per tutti i gusti – se ne sentono delle belle… e il fisico se la ride, se la ride e se la ride ancora – tanto tronfio del suo aver portato luce sulle zone umbratili della gente. Eppure non è necessario aver assimilato la fisica nell’interezza del suo corpus nomologico o aver passato in rassegna tutta la letteratura scientifica sulla luna per essere consapevoli che “ride bene chi ride per ultimo”.

Parte 3 – Il ‘fisicaccio’ erculeo: le colonne d’Ercole in forma di zone umbratili

Dal crescendo di domande formulate e dalle risposte date, è sempre più evidente che il fisico sta accantonando tutto ciò che non corrobora la sua cara e tanto salda concezione fisica. Rilasciamento d’acqua da parte di alcuni tipi di cipolle, riproduzione di vermi (Palola viridis) delle isole Samoa e molto, molto altro che accade in perfetta coincidenza con le fasi lunari – cielo nuvoloso o meno –, viene liquidato come un insieme di casi particolari che non hanno valore innanzi alle leggi universali. Casi particolari che andrebbero meglio spiegati come fenomeni dovuti ad altre norme fisiche (se non biologiche o geologiche o chimiche), rispetto quelle concernenti le forze in gioco tra la Terra ed il suo satellite naturale. Allo stesso tempo si eclissa – il fisico, ovviamente, anche se tale diritto spetterebbe alla luna, oltraggiata nella sua timidezza da tutto questo vociare – dichiarando che non vuole creare questioni e che, indubbiamente, ognuno è libero di avere le proprie opinioni e che, se queste lo aiutano a stare meglio, a credere che le proprie patate avranno più probabilità di crescere meglio se piantate con la luna crescente, faccia pure con tutta libertà. Tutto sommato lui dichiara di non voler scendere a compromessi con la sua deontologia, per la quale sarebbe inutile discorrere e smentire i luoghi comuni o le tradizioni ché tanto chi è fermamente convinto dei propri convincimenti sarà portato a rimanere ben avvinghiato a questi, per una strana forma di sinestesia idiosincratica, per una sorta fallace di memoria indotta (che, tra le righe, si traduce ‘per non metter piede nel mondo insicuro fuori dalle proprie zone umbratili’).
Quindi tutto ciò che va oltre la conoscenza fisica, tutto ciò che si permette d’esistere oltre le colonne d’Ercole, è fantasticheria, suggestione popolare che, sedimentandosi nel tempo, ha dato vita ad una memoria indotta per la quale crediamo a panzane belle e buone. Eppure il rilasciamento d’acqua da parte di alcuni tipi di cipolle, la riproduzione di vermi delle isole Samoa e molto, molto altro che accade in perfetta coincidenza con le fasi lunari continuano imperterriti a comportarsi come sempre di solito si comportano – se ne sbattono di un fisico che se ne sbatte, quando, in realtà, sarebbe molto più sincero non farlo. Infatti tutti questi fenomeni non (ancora) spiegabili con norme fisiche non stanno al di là delle colonne d’Ercole, al di là della nostra conoscenza; in un certo senso, ne possiamo già fare conoscenza, così come la fanno gli indigeni delle isole Samoa che, quando i vermi Palola rilasciano una parte del proprio corpo che sale a galla – in perfetta corrispondenza di ben precise fasi lunari –, organizzano banchetti che dire sontuosi è dire poco (e dire banchetti di prelibatezze, almeno per noi, è dire tanto). Piuttosto è il ‘fisicicaccio’ erculeo che non si vuole spingere al di là delle colonne d’Ercole.
Ma il genitivo (il ‘d apostrofo’) non è casuale nell’espressione: quelle colonne nella realtà non ci sono – sono ‘DI’ Ercole, perché è Ercole che se l’è inventate e, se non le oltrepassa, può starsene beato ché tanto tutto ciò che è ‘al-di-qua’ di quelle lui lo conosce… non è come quello che c’è ‘al-di-là’ di quelle, come ciò che non conosce – destabilizzante. Inutile a questo punto esplicitare claris verbis che ‘sto spazio che si ritaglia il buon fisico, in questo caso, non è molto diverso da una nuova ma pur sempre infelice zona umbratile.

Parte 4 – Al di là delle zone umbratili e dei pipistrelli che vi abitano, gamberi e granchi
Esco dalla conferenza stanco – stanco dei miti e credenze sulla luna, stanco di chi si crea miti e credenze in altro per demolire i miti e credenze sulla luna. Alzo lo sguardo in cielo e c’è lei, lei che, infaticabile e troppo menefreghista per rimproverarci tutti quanti che ossessivamente tanto la RIcerchiamo senza RItrovarla, semplicemente se ne sta lì – la luna. La sua luce è fioca, la sua forza gravitazionale sul mio corpo praticamente irrisoria, il suo effetto in fase crescente potrebbe giovare, nel trapiantar lattughe per esempio, per la tradizione popolare.
In quest’atmosfera, potrei muovere guerra alla mia stanchezza e soffermarmi a pensare la luna nel modo più razionale che il ‘fisicaccio’ erculeo mi potrebbe consigliare oppure nella maniera più pratica e tradizionale come un contadino o un antico navigatore mi spingerebbe a fare. Ma non carpirei la luna, no! E mi scorderei, che oltre tutto ed oltre tutte quelle zone d’ombra, rimane quella sua luce fioca, rimane la possibilità di goderne… di godere la luna. Ciò mi è precluso, però, finché a coccolarmi sono quei sogni di prima, tanto i sogni del pubblico quanto i sogni che si auto-persuadono esser veglia del fisico. Finché carico su di me una di queste prospettive e proseguo dritto, nel vedere le cose in funzione di una di loro, non vedo proprio e non sento proprio la luce e la voce fioche della luna.
Allora voglio andarmene libero nel mondo libero, non rannicchiarmi in zone umbratili: sì, andarmene libero nel mondo libero, cioè non proseguire sempre dritto ma camminare all’indietro e camminare di traverso, se lo voglio, se è necessario. Non si ha molta simpatia per i pipistrelli una volta che si è imparato ad amare i gamberi e i granchi.



Parte 5 – Il giorno dopo: appendici
Si ritira la luna che più non risplende al risplendere dell’alba, che al pari d'Icaro nulla può contro un sole caldo e lucente – è giorno di una nuova conferenza.
Questa volta il tema non ha più nulla a che vedere con miti e credenze popolari sul nostro satellite naturale; si affronta invece la tematica della crisi economica e di come alcune imprese trentine sorprendentemente siano riuscite a ‘tenere botta’ adottando nuove strategie produttive. Nuove strategie produttive banalissime se si vuole – emblematica in merito è la strategia “kaizen” che gira-gira, si riduce sempre al principio “produci una cosa se, dove, quando e come serve”. Eppure nuove strategie produttive che presentano un’efficacia potenzialmente disarmante, distinguendosi dal produrre meccanico ed in serie che ricorre per l’organizzazione all'utilizzo massiccio dei soli dati informatici. Non m’interessa qui dilungarmi a proposito; piuttosto sono stimolato a capire come diamine sia riuscita un’azienda che per anni si è rannicchiata nel proprio sistema produttivo, nella propria zona umbratile, a rivoluzionarsi ed aprirsi ad altro, a quella luce ancora terribilmente fioca che s’inizia ad intravedere del mondo della produzione post-crisi economica. Ora, sarà per via del rigurgito delle questioni affrontate la sera precedente ma mi pare proprio che tutto questo possa avere molte affinità col discorso sulle zone umbratili.
Allora come diamine riesce un’azienda a rivoluzionare il proprio sistema produttivo, ad aprirsi ad un nuovo mondo? Muovendosi “come granchi” – è la risposta di Edward De Bono, il padre del “pensiero laterale”.

Ci sono problemi che sembrano macigni messi in mezzo alla strada: se provi a prenderli di punta, ci sbatti la testa contro. E per Edward De Bono la colpa «è tutta della banda dei tre, Socrate, Platone e Aristotele, gli inventori del "pensiero verticale" basato sulla logica deduttiva». E allora? «Allora occorre imparare a pensare nello stesso modo in cui cammina un granchio: di lato» De Bono racconta la storia di Cenerentola. La cattivissima matrigna la sottopone a una prova impossibile: «Da questi sassi sul terreno ne prenderò 9 neri e 1 bianco. Se pescherai dal sacchetto un sasso nero verrai relegata nella torre, se troverai quello bianco sposerai il principe». Ma la matrigna è ancor più perfida e nel sacchetto mette dieci sassi neri. Cenerentola se ne accorge ma non può smascherarla. Come farà a dimostrare d' aver pescato il sasso bianco? «Provate un po' a risolvere il problema con il pensiero verticale», sfida De Bono, «non arriverete da nessuna parte». «[…] Mentre il pensiero verticale è guidato dalla logica, quello laterale si serve anche della logica, a volte procedendo a ritroso da una conclusione intuita precedentemente». E così Cenerentola se la cava. «Esattamente. Si finge maldestra e, pescando il sasso dal sacchetto, lo fa cadere a terra tra gli altri sassi bianchi e neri. Ed ora - tuona la matrigna - come faremo a sapere di che colore era? Semplice - risponde la bella - contando i sassi rimasti nel sacchetto: se sono tutti neri significa che ho pescato quello bianco». Geniale. Funziona anche in azienda? «In un' acciaieria del Sudafrica, adottando il mio metodo, hanno realizzato 21 mila nuove idee creative […]
(Fonte: [http://archiviostorico.corriere.it/2007/ottobre/26/aziende_creative_muovono_come_granchi_co_9_071026066.shtml])

Oltre a consigliare la lettura dell’articoletto che è davvero interessante (e ad approfondire sul “kaizen” che in realtà è una gran figata!), non voglio di certo sostenere che sia giusto fare del “pensiero laterale” un nuovo dogma, contro il “pensiero verticale” della tradizione e contro il “pensiero verticale” della ragione.
Tuttavia mi piacerebbe ribadire che è infinitamente stupido trincerarsi in zone umbratili ed affrontare poi il mondo prendendo la propria prospettiva e tirando dritto con questa – bisognerebbe essere più ciechi dei pipistrelli (ché persino loro un po’ ci vedono) per perder sé, e con sé il mondo, in manovre del genere da ritiro immediato della patente (da parte non della polizia ma del fosso o del paletto contro il quale inevitabilmente si va a finire).
Molto più produttivo e remunerante, invece, sarebbe l’aprirsi al mondo, l’andare liberi nel mondo libero, cosa fattibile adottando dei modi che permettano di muoversi nel mondo in tutte le direzioni, in tutte le sue parti (e non solo all’interno della propria zona umbratile). Senza timore di venir paragonati a gamberi, optando di camminare all’indietro per un po’, o a granchi, scegliendo di camminare di traverso per un altro po’, come questo signor De Bono o la Toyota (che sta convertendo la sua strategia produttiva secondo i dettami del “kaizen”); sempre e comunque in cammino nel e verso il mondo – “
Mehr Licht! Mehr Licht!”.

Buona seduta!

P.S. (al poveretto che non si è letto tutto): fai come se non avessi mai aperto questa pagina (consiglio spassionato!) o, al massimo, salta al P.P.P.S. finché sei in tempo (dammi retta!).

P.P.S. (al poveretto che si è letto tutto): ora non so come comportarmi con te. Conosci un termine più forte per dire “scusa”? Bene, elevalo usando come esponente la somma di tutte le parole che ho sfruttato in questo testo ed avrai la giusta espressione con la quale dovrei rivolgermi a te, per rammaricarmi di essere stato tanto prolisso. Mi rendo conto che, poi, la stessa operazione andrebbe fatta per chiederti scusa, per averti costretto a fare salti mortali entro un simile condensato dove sono raggruppati concetti che, a prima vista (e forse anche un po’ dopo la prima), non si collegano proprio per niente, oltre ad essere argomentati blandamente… che ci vuoi fare! Sappi perdonare la mente malata di uno studente perdigiorno (che si rifugia dietro l’ammissione di avere una mente malata solo perché sa che il vero pazzo non lo ammette mai e così lui, ammettendolo, conta di fregare tutti sulla sua vera natura =P). In ogni caso, ci tengo a precisare alcuni punti con delle note che potrebbero servire pure a te per fare chiarezza su tutta ‘sta roba scritta (ma se devono complicarti la vita, salta pure ché non è qualcosa di essenziale):
(A) Parte 1 – La conferenza: mi riferisco a questo evento [http://www.unitn.it/en/scienze/evento/21053/miti-e-credenze-popolari-sulla-luna];
(B) Parte 2 – Il pubblico: miti e credenze in forma di zone umbratili: come lo stesso ‘fisicaccio’ erculeo sottolineava, purtroppo molte credenze sulla luna ‘hanno le gambe corte’ e si contraddicono se comparate tra loro. Non faccio link particolari ma è sufficiente fare un giro rapido su internet per vedere che, per esempio, in Francia il taglio della legna è fatto con luna calante, in Italia con luna crescente, secondo altri il contrario e così via dicendo anche per buona parte delle altre credenze;
(C) Parte 3 – Il ‘fisicaccio’ erculeo: le colonne d’Ercole in forma di zone umbratili: la tesi di fondo che si sostiene è ovviamente troppo perspicace per essere stata pensata da me. Se non ricordo male, infatti, mi pare che in filosofia della scienza già Kuhn e Feyerabend avevano descritto in maniera molto eloquente come (mi tocca parafrasare ma il senso penso sia quello) lo scienziato si ponga davanti ad una legge scientifica attraverso un rapporto non troppo differente da quello di tipo fedeistico, come ci si porrebbe dinnanzi ad una credenza;
(D) Parte 4 – Al di là delle zone umbratili e dei pipistrelli che vi vivono, gamberi e granchi: mai sottovalutare le idee che potrebbero baluginare nella mente alla lettura di un libricino vecchissimo quale lo sconosciutissimo Bertoldo e Bertoldino, scritto da un autore del ‘500 (tal Giulio Cesare Croce) e riguardante le divertenti malefatte di un contadino ‘grezzolotto’ (Bertoldo) alla corte del re Alboino (vedi P.P.P.S.);
(E) Parte 5 – Il giorno dopo: appendici: mi riferisco a questa rassegna stampa [http://www.trentinosviluppo.it/Contenuti-istituzionali/Press-room/Comunicati-stampa/Kaizen-in-Tama-crescono-produtivita-37-e-soddisfazione-delle-persone].

P.P.P.S. (a qualsiasi tipo di poveretto): vorrei proporre un giochino (!) =) No, non è il contentino per il poveretto che arriva qui dopo aver letto il P.S..
È invece un giochino serio, che a me personalmente ha spiazzato – e del quale ancora non ne sono venuto a capo!
Si tratta di pensare un commento, una storia, una favola, un’opera teatrale, quel che si vuole, insomma, basta che risponda ad una domanda: ma perché il gambero cammina all’indietro (anche se poi la scienza lo ha confutato) ed il granchio cammina di traverso? Sì, ok: sembra stupido ma mi pare che ogni tanto faccia bene stimolare la fantasia e, in più, senza fantasia sarà ben difficile riuscire a capire come diamine possiamo camminare all’indietro o camminare di traverso fin da subito. Per stuzzicare ulteriormente, chiudo questa volta definitivamente il post riportando un esempio di storiella buffa su gamberi e granchi:

Diceva mio padre che, quando le bestie parlavano, il gambero e il granchio, amici cari, disposero di andare per il mondo a vedere come si viveva negli altri paesi. Il gambero allora camminava all’innanzi, come fa l’altro bestiame, e similmente il granchio non andava per traverso come al presente. Or costoro, partitisi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo, e prima capitarono nel regno delle cavallette, poi passarono in quello delle lucertole, che confina con quello del re dei parpaglioni, e così girando gran parte della terra videro i vari costumi di quelle bestiole. Alfine, una sera, giunsero nel paese degli scoiattoli, e perché fra gli scoiattoli e le donnole v’era gran guerra per essere tra loro confinanti, si stava in arme dall’una e dall’altra parte.
Arrivati questi due compagni in simile luogo, furono scoperti dalle guardie degli scoiattoli e tolti per due spie: presi e legati, vennero condotti davanti al Capitano, il quale, dopo averli esaminati minutamente, non trovò in essi altro se non che, desiderosi di vedere il mondo, eran giunti in quelle parti, e che come forestieri non erano informati di cosa alcuna.
Siccome desideravano di esser posti in libertà e di tornarsene in patria loro, oppure d’essere assoldati in quell’esercito di scoiattoli, il Capitano, parendogli esser bestie da fazione, (per aver tanti piedi e tante braccia) li accettò al suo servizio, ordinando di far passar loro la paga.
Ora avvenne che essendo mandato il gambero a spiare ciò che si faceva nel campo dei nemici, (come quegli ch’era nuovo personaggio in quel paese, e che camminando con gran silenzio e spesso coprendosi tutto sotto la coda, non sarebbe scoperto facilmente) se ne andò animosamente e trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del donnolotto, pensando che ivi ancora si dormisse. Ma il meschino ebbe mala fortuna, perché ivi erano intenti a giuocare a santi e palle; onde nel porre che fece il capo dentro, fu veduto da uno di quei soldati, il quale, cheto, si levò da giuocare, di che il povero gambero non si avvide e presa una stanga, gli tirò siffatto colpo sul capo da stordirlo in maniera che pareva morto, e se egli non fosse stato protetto dalle sue solite armi, il cervello gli sarebbe andato a spasso. Colui che lo percosse, non sapendo che fosse una spia, ma credendo che ivi fosse capitato a caso, (non avendo mostaccio da spia), credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senz’altro sospetto si rimise a giocare.
Ora ritornato il misero in se stesso, né potendo sollevare il capo per la gran percossa avuta, giurò di non volere entrare in luogo alcuno col capo innanzi, ma di camminare colla coda, per cui se gli venissero date delle busse, piuttosto gli fossero date sulla schiena che sulla testa.
Così tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era accaduto, e come le guardie dormivano, ma che nel padiglione si vegliava; onde il Capitano fece quietamente armare le sue schiere e andò ad assaltare il nemico e preso il padiglione, uccise tutti quelli che vi erano dentro, vendicando il gambero, il quale, per non trovarsi più in simili rischi disse al granchio:
- Andiamocene con Dio, perché la guerra non fa per noi.
- Ma come fuggiremo – disse il granchio – affinché non sieno vedute le nostre pedate?
- Tu camminerai per traverso – disse il gambero – ed io all’indietro.
Piacque la proposta al granchio, che subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a camminare di traverso con tanta prestezza, che il gambero appena appena poteva stargli dietro. Così partirono dal campo, e mai gli scoiattoli poterono sapere dove fossero andati, per lo stravagante camminare che facevano. […]


G. C. Croce, Bertoldo e Bertoldino, Universale economica, Milano, 1949, pp. 37-8.

venerdì 10 febbraio 2012

"Giordano Bruno ha inventato l'accendino" (cit.)...

...battuta!
A onor del vero, comunque, un accendino l'ha inventato. In senso metaforico, è uno di quei tipi scomodi che inventa "specchi" - che in questo mondo, tra mondi infiniti, sono veri e propri accendini. Arrostendolo, il mondo e noi con lui arrostiamo noi stessi, indispettiti nella profondità delle nostre viscere di vederci riflessi, di vedere che non si è mai quello che si crede di essere ma che si è semplicemente quello che si è. Apotropaico è qualcosa che potrebbe essere proprio succulento come carne alla brace - e per l'accendino, e per improvvisare il barbecue, si sa a chi rivolgersi.


"We have no need of other worlds. We need mirrors. We don't know what to do with other worlds. A single world, our own, suffices us; but we can't accept it for what it is"
(Stanislaw Lem)

Buona seduta!

domenica 5 febbraio 2012

Il mistero degli studenti scomparsi durante le ultime lezioni


C'è un paradosso che mi ha sempre fatto riflettere. Si tratta di una stupidaggine, ma non so perché ci ho sempre fatto caso senza darmi risposte definitive... credo di essermi illuminato quando, in una sua lezione, pure il prof. Kammerer citò questo fenomeno:
Durante le ultime lezioni di ogni corso, il numero di studenti presenti in aula cala drasticamente.
Si tratta di un dato di fatto abbastanza frequente, spiegabile in maniera molto banale.
Dal momento in cui gli studenti si giustificano spesso con il docente attribuendo la colpa dell'assenza allo studio pressante, una prima ipotesi potrebbe essere la seguente: se le ultime ore del corso sono molto vicine alla sessione d'esame, gli studenti preferiscono studiare piuttosto che frequentare. Questo discorso è effettivamente valido se gli studenti sono alle ultime lezioni del corso A e devono prepararsi per l'esame B, quindi dicono: “che diavolo me ne frega del corso di paleontologia romanza se devo dare l'esame di termologia organica?”. Ma capita altrettanto spesso che gli studenti (noialtri, insomma) non frequentino le ultime lezioni del corso A quando stanno preparando l'esame A – lo stesso esame. Si potrebbe qui dare la colpa al prof., il quale, magari, ripete sempre le stesse cose, e ri-sentirlo per la milionesima volta ripetere la solita solfa è considerato meno produttivo che memorizzare quegli stessi argomenti direttamente spaparanzati sul divano di casa propria. Un possibile contro-argomento, tuttavia, è il celebre repetita iuvant, per il quale, per come la vedo io, preferisco ascoltare il prof. ripetere la lezione già spiegata con un lessico appropriato una volta in più, magari ascoltandolo con attenzione per capire meglio i dettagli, piuttosto che accontentarmi e poi rischiare di ritrovarmi sempre su quel divano a piagnucolare: “ma che cazzo ho scritto negli appunti? Che roba è?”.
Un altro argomento potrebbe essere, sempre nel caso dell'assentarsi dal corso A mentre si prepara l'esame A, è questo: si è rimasti indietro, quindi tanto vale recuperare il malloppo piuttosto che perder tempo sui dettagli col prof. Anche questo è un valido argomento, anche se, pure qui, si potrebbe pensare che spesso i docenti nelle ultime lezioni tendono a ripetere qualcosa anche delle prime, per ripassare il programma. Ma, di nuovo in risposta: ciò non accade sempre.
C'è pure un possibile “argomento noia”, per il quale lo studente, arrivato alle ultime lezioni, si è talmente rotto di stare all'Università che preferisce un coitus interruptus, piuttosto che (re)stare ancora nella città universitaria fino alla fine del rapporto con il corso. Non viene, ma va – a casa.
Di argomenti ce ne sono, come vedete, a bizzeffe. Aggiungo, da mezzo filosofo, che non è facile generalizzare; probabilmente ogni situazione, ogni corso ed ogni docente hanno una spiegazione a sé. Ma, sempre da mezzo filosofo, mi piace provare a generalizzare. Insomma, è sempre un discorso a metà.
Spero di aver stimolato i lettori ad analizzare e congetturare su questo oscuro fenomeno.

p.s. L'ipotesi più probabile, ovviamente, è che tutti gli studenti scomparsi siano chiusi in bagno. Presumibilmente, dopo aver letto 'Lo Stimolo'.  

lunedì 30 gennaio 2012

Sì, io sono quella dei Post "l'unghie" (il titolo serio è: "La versione di Luhmann: Lupin, Fujiko e la Doppia Contingenza")

... E anche quest'anno, carnevale è alle porte. Vorrei essere rimasta ai miei cinque anni, seduta su un carro pidocchioso con due sacchetti di coriandoli e uno di caramelle di cui sarei stata defraudata nel giro di pochi minuti da mia cugina e dalla sua amica col naso da strega (non di gomma. Era vero-vero: lei aveva un vestito azzurro da principessa, ma ho sempre pensato che avesse dovuto vestirsi da scopa - rachitica e stronza com'era - ma vabbeh...).

Si diceva, anche quest'anno carnevale è alle porte. Una volta la vedevo come una semplice festa in costume, un trastullarsi popolare e colorito da sfruttare per vestirmi da quella cosa che non avrei potuto essere in nessun altro giorno dell'anno e che avrei voluto essere in tutti i restanti giorni della mia vita: una Principessa. E non nel senso economico-politico del termine. Francamente, penso che un vestito come quello di Rosaspina nella scena finale de La Bella Addormentata mi sarebbe bastato per tutto l'anno e a tutte le temperature, così come il diadema, la chioma bionda e tutto l'armamentario. Insomma, allora non è che concepissi il sottile e perverso piacere di una cabina armadio di quelle che vedi solo su Teen Cribs e ti mangeresti le mani perché c'è una sola anta ripiena di scarpe da abbinare ad altre due ante di pantaloni e cinque di vestiti. Senza dimenticare la cassettiera per i gioielli, con quelle seicentonovantacinque paia di orecchini di tutti i colori.

Allora mi bastava il mio vestitino azzurro, il mio diadema di tutto rispetto made in China e i miei molleggiatissimi riccioli d'oro che non sarebbero mai più tornati, esattamente come il mio sguardo assolutamente sognante e disinteressato verso l'evento in sé, che dal "Forte!" dei 5 anni è diventato un "Fottiti!" a 15 (tanto per conservare la F iniziale e mantenersi eretici nella tradizione) e un "bachtiniano" a 25. Verità per verità, anche se "bachtiniano" suona estremamente figo, darei tutta la mia "figaggine" per tornare al "Forte!" dei 5 anni, ma... Sfortunatamente gli occhi sono l'unica parte che non puoi retroeducare... ( > Retroeducare: Neologismo coniato alle 21:37 tramite consolidato metodo allacazzo guardando C.S.I N.Y. per indicare la modalità intellettiva tale per cui è possibile far tornare un qualsivoglia oggetto d'indagine ad uno stato precedente senza che conservi segni dell'evoluzione da cui proviene).

Ma non divaghiamo. Divagare è sinonimo di perdersi. Perdersi è sinonimo di vivere. E vivere è sinonimo di... Smettere di scrivere come Baricco. Principessa. A ripensarci adesso suona talmente banale... Io, che non sono più riuscita a conformarmi a nessun prototipo comportamentale ed ideologico femminile, che ho indossato felpe e profumi da uomo per anni, che avevo gli Slipknot nel lettore cd portatile che ad aprirlo e mostrare il disco era come lanciare una sfera poké di immane potenza distruttiva verso la rana di Squerez! dei Lunapop (un nome una garanzia: l'album faceva cagare...). Io che Principessa non lo sono mai stata davvero... Perché la verità è che le Principesse... Mi sono sempre state un po' sulle palle.

Dicevo, non era la ricchezza a muovermi verso l'ideale della Principessa, anche se forse oggi ciò che spinge le bambine a protrarre questo tipo di tradizione onirico/esibizionista è proprio quella. Ciò che mi piaceva delle Principesse, erano i Principi: questi "figuri" dotati di fisico statuario e di animo cavalleresco che spuntavano dai boschi (proprio come i vouyer più sagaci), che si innamoravano di te anche se non aprivi bocca e usavi le forchette al posto dei pettini (proprio come gli schizofrenici più avanzati), che nel bel mezzo di un salone di gente socialmente ed economicamente superiore a te ti sceglievano perché eri quella più in tiro di tutte, e si mettevano ad odorare tutti i piedi del regno per ritrovarti. Quelli che cantano canzoni di merda e spariscono per poi ricomparire casualmente in mezzo a un bosco e baciarti oltre una teca di vetro no però.

E il Principe Filippo, io lo adoravo. Era così sbruffone, intraprendente, pragmatico... Tenace. Lui che scappava fuori alle spalle di Rosaspina cantando la stessa canzone di lei dicendole che non era uno sconosciuto, perché quello che aveva incontrato nei suoi sogni era proprio lui... Sì, okay, messa così però è troppo sdolcinata. Ho sviluppato una sorta di intolleranza verso le sdolcinatezze, una sorta di diabete emotivo, perciò passiamo ad un next level dopo aver constatato come la Disney sia sostanzialmente habermasiana > Habermasiana: dicesi "habermasiana" una visione del mondo pacata e tranquilla dove siamo tutti fratelli e tendiamo al bene ed al bello e alla cooperazione comunicativa felice che possa soddisfare tutti. Ovviamente in Sociologia non è spiegato così, il tutto assume un contorno senza dubbio più amplificato, credibile e scientifico. Ma qui siamo tutti luhmanniani, e in quanto tali sappiamo perfettamente che vige una doppia contingenza e che non ci sono vincitori, se non quelli che riescono a soddisfare le proprie aspettative verso se stessi giocando abilmente con quelle degli altri.

E - sempre in quanto tali - sappiamo che l'amore come ce lo rifila la Disney è un evento altamente improbabile. Le reciproche aspettative non verranno mai soddisfatte completamente. Due anime sono impenetrabili l'una per l'altra. Non sapranno mai cosa realmente vogliono dall'altra, se non quello che intendono far credere attraverso ciò che scelgono di comunicare. Anche perché - in quanto tali - sappiamo che la sincerità è l'unico elemento incomunicabile. Ed è in virtù di questo che ora comprendo perché il mio cartone animato preferito, quando ero bambina, era Lupin. Un cartone "da maschio".

Lupin mi piaceva per una serie di motivi che ovviamente andavano al di là dell'aspetto fisico. Certo, a tratti mi ricordava mio zio: mingherlino, giocherellone, capello corto. Ma al di là di questo, Lupin era l'unico cartone che mi faceva ridere di gusto: la sua goffaggine era proporzionale alla sua risolutezza, e alternava momenti di pura stupidità a momenti di puro genio strategico. Insomma, aveva le parvenze dell'idiota, ma non lo era mai davvero. La sua saggezza stava nel sapere quando tendere l'elastico e quando lasciarlo, e il suo rapporto con Fujiko ne era una prova evidente. Perché Lupin ha una forma fatale di attrazione per una donna che può competere in tutto e per tutto con lui, per capacità tecniche e strategiche, superiore a tratti per le carte della femminilità e del "distacco emotivo" che le permette di trattare Lupin come un calzino, ma inferiore in un'unica cosa che vale comunque a renderla nel complesso inferiore e Lupin stesso: Fujiko è una maschera. Lupin no. O meglio, lo è anche lui, ma in altro modo: Lupin bluffa. Non può essere trasparente, perché se i suoi intenti fossero evidenti i suoi piani salterebbero; d'altro canto, Fujiko non può essere trasparente, perché se ciò che prova fosse evidente, la tensione tra lei e Lupin e le priorità dei suoi interessi materiali decadrebbero.

Tra Fujiko e Lupin la doppia contingenza si eleva alla seconda, il che rende il loro rapporto - di qualunque natura sia - doppiamente intricato ma allo stesso tempo doppiamente semplificabile: entrambi infatti esonerano dalle reciproche aspettative quando compaiono a mettersi i bastoni tra le ruote, ed entrambi prevedono esattamente le loro reciproche mosse in base a cui si muovono poi al fine di arrivare ad una conclusione inaspettata per l'altro che li porti a guadagnarsi il bottino. Semplificando: da una parte fanno ciò che l'altro non si aspetta per aumentare le probabilità di cogliere di sorpresa; ma per fare questo, allo stesso tempo, calcolano (a e a volte fanno) ciò che l'altro si aspetta per distaccarsi completamente o parzialmente da quell'aspettativa. E così la complessità aumenta a livelli vertiginosi, ma il bello di Lupin e Fujiko è che si nutrono vicendevolmente di questa complessità, non ne sono prede. Sanno chi c'è dall'altra parte, sanno i loro punti deboli e i loro limiti, e oltre a far rientrar questi nei loro calcoli e a sfruttarli, nutrono verso di questi un profondo rispetto. Fujiko viene sempre perdonata da Lupin per il suo egoismo; Lupin viene sempre perdonato da Fujiko per la sua lussuria. E poi si riparte daccapo.


Fujiko è una maschera, e Lupin lo sa bene: ciò che lo porta a lei non è tanto il fatto che sia una donna con cui possa confrontarsi, che abbia un corpo mozzafiato, che sia estremamente indipendente e talmente orgogliosa e fiera da non cadere mai ai suoi piedi se non per finta e per ottenere ciò che vuole. Lupin conosce bene la maschera. Ma conosce ancor di più quel che nasconde, ed è quello che lo porta ogni volta a perdonarla e a dirsi "Non me ne frega nulla se ci hai riprovato a fregarmi. Io sono ancora qui, e tu sei ancora qui con me". Perché Fujiko non è certo la ragazza più devota della terra e mette sé stessa prima di tutto, ma non si fa scrupoli a tornare sui suoi passi per proteggere Lupin, se necessario. Lupin guarda all'attimo, non al passato. E anche se si ritrova spesso a cedere dinnanzi a lei, mosso da quella parte irrazionale che sembra non saper dominare, sa subito come riprendere le redini e rimetterla in riga senza mai farsi mettere i piedi in testa del tutto. Lui sceglie come e quanto cedere. Il resto è tutto un inseguire.

Ed è in virtù di questo che mi dico che un Principe Filippo potrà anche rapirti nei sogni, ma il Principe dei Ladri è l'unico che sa come rubarti anche il cuore.